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I miei due incontri con Antonin Artaud, il sogno ed il corpo che esplode...
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11/3/2004 9:36
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Ho incontrato Antonin Artaud due volte.

La prima volta avevo diciassette anni, lui forse venti o venticinque, ma in realtà  non era lui, era invece una specie di fantasma, l'immagine proiettata dalla cultura ufficiale, annacquata e smussata dallo scalpello del buonsenso dei corsi di studio, solo teatro, un pò di cinema, qualche poesia, ma lui era muto, legato ad un letto d'ospedale, percosso dalle scariche dell'elettroshock, non mi poteva parlare del Corpo senza Organi, delle forze che passano da un corpo all'altro, della danza alla rovescia, dei segni nella terra dei Tarahumara, ed infatti non ci siamo visti, ma solo attraversati.

La seconda volta io avevo trent'anni, lui probabilmente due secoli, tutti raccolti nella sua pelle sottile ed incisa dalle stelle comete che, passando, gli hanno bruciato il viso, la bocca sdentata, i capelli lunghissimi e dolcissimi che dilatavano ad oriente, fluttuando verso il sole nero.
Gli dissi: "Mi hanno impedito di raggiungerti, ti tengono sepolto", lui alzà il suo sguardo dolente e soffià alcune sillabe nell'aria, accompagnandole con un gesto della mano: "Lo so, fanno sempre così, ogni volta che qualcuno sta per rivelare delle verità  fondamentali, che potrebbero squassare la realtà  così come noi la conosciamo, lo soffocano, lo legano, lo suicidano...è successo per Gerard de Nerval, appeso ad un portone di Rue de la Vieille-Lanterne, proprio mentre stava divorando la luce-lanterna e farla poi esplodere tra occhi e polmoni, e riappropriarsi così del suo corpo di Vedovo, Inconsolabile, Principe d'Aquitania dalla Torre abolita, lo so, aveva quel biglietto tra le mani, "la notte è nera e bianca", qualcosa stava per accadere...ed anche Van Gogh, stava per rivelarci qualcosa, i suoi dipinti erano dei fuochi greci, delle bombe atomiche sapientemente pronte a detonare in questa vita presente che si mantiene nella sua vecchia atmosfera di stupro, anarchia, disordine, delirio, sregolatezza, pazzia cronica, inerzia borghese, anomalia psichica (perché non l'uomo, ma il mondo è diventato un anormale), di voluta disonestà  ed esimia tartuferia...no Van Gogh non era pazzo, non è delirio passeggiare di notte con dodici candele piantate su un cappello per dipingere un paesaggio dal vero, e quanto al fatto che si è fatto cuocere una mano sul fuoco, è puro e semplice eroismo, e quanto all'orecchio tagliato, è logica diretta, e comunque un mondo che si mangia l'immangiabile dovrebbe solo stare zitto al riguardo."

Poi si girà, e svanì, non lo rividi mai più, ma tutte le sere ci incontriamo in sogno, in un salotto rosso e nero, molto al di sotto della crosta di fango del cielo, so che è la casa di una sua amica, Paule Thévenin, c'è anche lei, Artaud è sempre in silenzio, ma un silenzio rumoroso e fragoroso che mi segue poi ogni giorno, saranno anche le parole di Paule che mi narra di lui e che rimbalzano tra questo silenzio ed il cuore, e mentre mi narra di lui gli accarezza il capo e gli apre il petto e mi fa vedere ancora quella luce-lanterna, quel corpo che esplode...

Quindi adesso lascio la parola a Paule:

"Ho conosciuto Antonin Artaud nel modo più semplice: sono andata a trovarlo.

Poiché io abitavo in periferia, il mio domicilio si trovava a qualche fermata di autobus dal numero 23, rue de la Mairie, a Ivry (potevo anche recarmici a piedi), il giorno dopo il suo arrivo o il giorno dopo ancora, un amico mi telefonà e mi pregà di andare a chiedere ad Antonin Artaud se avrebbe accettato di leggere un suo testo per la serie dei Club d'Essai. Era già  uscito quando arrivai a Ivry accompagnata da mia figlia ancora molto piccola. Dissi al custode che sarei ritornata il giorno dopo, alla stessa ora.

Me ne ricordo ancora con la più grande precisione. Ero ritornata sola. Era il mese di giugno.
Artaud occupava una camera in un nuovo padiglione, in fondo al parco, l'erba non era stata tagliata, alta sotto gli alberi, sembrava di essere lontano da Parigi. Fin dal momento in cui bussai alla porta di Antonin Artaud ebbi l'impressione di entrare in un altro mondo. Bisognava averlo sentito pronunciare, anche una sola volta, questa semplice parola: «Avanti!», per capire. La parola cambiava segno, si caricava in modo speciale, pronunciata in maniera tanto netta – le due sillabe scandite con una precisione tanto radicale che si aveva l'impressione di lasciare il posto in cui ci si trovava per entrare "altrove". Entrai. Vidi un uomo in piedi che scriveva, un quaderno abbandonato sul caminetto. Girà la testa, guardandomi. Benché fosse di media statura, il modo che aveva di voltare la testa, gettando in dietro i capelli molto lunghi, la vivacità  del suo sguardo, l'azzurro vivo degli occhi, rendevano il contegno imponente. Nonostante l'eccessiva magrezza, gli stenti segnati sul volto da dieci anni di privazioni (era ormai senza denti), c'era in lui qualcosa di regale. Ho esitato prima di usare questa parola, ma è la sola che mi sembri giusta, e, d'altra parte, non si è lui stesso ad essersi ritratto così nel Rois des Incas?

Gli dissi chi ero, e lo misi a parte della proposta del Club d'Essai. Non rispose, mi offrì delle noccioline abbrustolite e salate tirandole fuori da un piccolo pacchetto che teneva in tasca. Poi mi parlà del caminetto, del buco nero che esso apriva nella stanza, quel buco nero che si ritrova in Artaud le mà´mo, e si rimise a scrivere. Seduta su una sedia di fronte a lui, aspettavo; pensavo che avesse completamente dimenticato la mia domanda e non osavo ricordargliela. Tutto ad un tratto si girà verso di me: riteneva impossibile registrare qualsiasi cosa per la radio, l'impossibilità  non veniva da lui, piuttosto da quell'organismo quasi ufficiale che non avrebbe sopportato di sentire ciò che aveva da dire, come lui lo voleva dire, e glielo avrebbe impedito.

«Crede che mi lasceranno dire delle frasi come queste»:
«A me non piacciono le fragole, ciò che mi piace èil gusto delle fragole nelle fragole».
«A me non piacciono i baci, ciò che mi piace è il gusto dei baci nei baci».
«A me non piacciono i coglioni, ciò che mi piace è il gusto dei coglioni nei coglioni».
«A me non piacciono i culi, ciò che mi piace è il gusto dei culi, nei culi»?

Gli assicurai che avrebbe detto o letto esattamente quello che voleva; mi fissà allora, per il giorno dopo, un appuntamento al quale dovevo recarmi con l'amico desideroso di fare questa registrazione.
In verità  non fu affatto quelle frasi che lesse, ma Les malades et les médecins:

La malattia è uno stato,
La salute non è che un altro,
più infame,
intendo vile, più meschino,
Non c'è malato che non sia diventato,
non un malato che non abbia tradito, un bel giorno, per
non aver voluto essere
malato, come certi medici che ho subito...

Qualche giorno dopo, riferendomi con ironia la seduta che si era tenuta al Club d'Essai, mi disse, con la luce nello sguardo: «Ho voluto ascoltarmi: spaventoso! Ho creduto di sentire Albert Lambert».
Dopo avermi interrogata con molta discrezione su ciò che facevo o desideravo fare, dato che doveva andare a Parigi, fece la strada con me fino al cancello del parco. Al momento di lasciarmi mi domandà improvvisamente:
«Viene dall'Afghanistan?»
«No».
«L'avrei creduto, poiché attendo una parente, dal nome di Neneka, che deve portarmi da Kabul un vaso di polvere pura e pensavo che fosse lei. Vi assomigliate».
E se ne andà. Io non sapevo in quel momento, lo seppi solo più tardi, che mi ammetteva tra le sue figlie adottive (filles de cÅ“ur à  naà®tre).

àˆ così che ho conosciuto Antonin Artaud. Qualche giorno più tardi venne a pranzo a casa mia. Eravamo numerosi e giovani a quel tempo. Senza dubbio si trovà a suo agio tra di noi, e cominciò a venire tutti i giorni; se era troppo stanco per uscire, faceva telefonare a uno di noi di andarlo a trovare subito.
Forse lo troverete sorprendente. L'immagine che si dà  di Antonin Artaud è spesso lontana dalla realtà . Esigeva molto da quelli che l'amavano, ma era pieno d'attenzioni, gentilissimo. Poco tempo dopo il nostro primo incontro, venne un pomeriggio a casa, brandendo un enorme mazzo: «Questo bouquet rappresenta un'intera coscienza, la sua. Ho scelto i fiori uno ad uno e li ho composti io stesso», disse offrendomeli. Facendomi notare ciascun fiore, lo ricompose davanti a me: al centro, due rose, una bianca, e l'altra rosa (che il bouquet cominciasse con due rose era per lui di estrema importanza); al di sopra tre papaveri, uno giallo, uno rosso, il terzo screziato di rosso e di bianco; una dalia color fuoco ed una dalia rosa, a destra e a sinistra due margherite bianche; una margherita rosa nel basso del bouquet circondata da rami di quercia e di asparago. Io non conosco il linguaggio dei fiori; avrei potuto conoscerlo e non mi avrebbe insegnato nulla. Quello che so è che mai avevo ricevuto un bouquet che ponesse tanti problemi, che dicesse tante cose, che probabilmente mai più ne riceverà uno simile.

Antonin Artaud era giunto a questa cosa assai rara: aveva saputo conferire un senso alla propria esistenza, e in questo modo un senso alla vita. Tutto quello che diceva, nel momento stesso in cui lo diceva, sembrava d'una tale precisione, d'una tale verità , ed era egli stesso a tal punto questa verità  che lo si ammetteva totalmente.

Un giorno sul boulevard Saint-Germain, mi aveva detto: «Io non so nulla, o piuttosto so, il che è molto pericoloso a dirsi, che non è il significato che crea le parole ma le parole che creano il significato». Si potrebbe quasi dire di lui che creava la realtà . Chiunque lo avvicinasse lo avvertiva.

Così avendo avuto fin dalla sua giovinezza l'abitudine di farsi radere, andava ogni giorno da un barbiere di rue de la Mairie, a Ivry. In seguito fu il barbiere che andà alla casa di salute. Si chiamava Monsieur Marcel e arrivava in generale un poco dopo mezzogiorno.
Senza indugi, come un ministro, con una valigetta contenente il suo strumento, entrava nella camera di Artaud, che molto spesso era ancora a letto. Monsieur Marcel tirava fuori i suoi strumenti e si metteva all'opera. Durante tutto questo tempo Antonin Artaud lo intratteneva con la più grande affabilità  e, nella maniera in cui Monsieur Marcel gli rispondeva, nella sua pazienza nel raderlo, si notava una deferenza e una tenerezza che non erano finte. Nessuna ossequiosità , il più gran rispetto, quel rispetto che gli antichi Greci dovevano provare per il Poeta. Ho visto un giorno Monsieur Marcel commosso fino alle lacrime: Artaud gli aveva appena dato un esemplare con dedica del Van Gogh. E io ho sempre avuto la sensazione che Monsieur Marcel credesse a tutto quello che Antonin Artaud gli diceva; lo credeva perché sentiva che era vero.

Un altro esempio, altrettanto significativo anche se più divertente. La portinaia del nostro palazzo, una brava donna, ma desiderosa di provare la sua autorità , sbirciava dal suo sgabuzzino l'arrivo di Antonin Artaud al quale voleva fare qualche rimostranza perché la notte precedente si era esercitato, a finestre aperte, a recitare dei poemi di Gérard de Nerval e la declamazione aveva oltrepassato i limiti del nostro appartamento. Aveva appena aperto bocca che egli la fermà: "Zitta! Se continua a proibirmi di recitare i versi di Gérard de Nerval, la trasformo immediatamente in un serpente dalla testa piatta!", e la lasciò interdetta sui gradini. Ci raccontà con molto humor l'incidente, tanto più strano in quanto la portinaia era una bretone dalla testa singolarmente piatta. Quando fu certa che Artaud se ne era andato, ella venne a trovarmi, non tanto per lamentarsi quanto per essere rassicurata perché, senza troppo osare confessarlo, era molto inquieta. La forza di suggestione di Antonin Artaud era così forte che quella povera donna si domandava se qualche realtà  per lei minacciosa non si nascondesse sotto quelle parole.

Questo humour, così caratteristico di Antonin Artaud, era uno dei tratti che costituivano la sua capacità  di seduzione. Una sera che era ritornato molto tardi a Ivry, si accorse di avere dimenticato in camera le chiavi del portone. Tutto era chiuso, inutile a quell'ora, e in periferia, cercare un taxi, egli decise dunque di scavalcare la recinzione. Impossibile, era troppo alta. Il muro contiguo al padiglione dove alloggiava non lo era meno. Due agenti di polizia che lo avevano notato iniziarono ad interrogarlo. Spiegà loro il suo imbarazzo, indicà il punto dove si trovava la sua camera, si mostrà così persuasivo che gli agenti gli fecero la scaletta e lo issarono sul muro. Raccontandoci questa impresa, Antonin Artaud aggiunse: «E si è potuto vedere questo spettacolo straordinario! Due sbirri che aiutavano il pensionato a scavalcare il muro per ritornare nella casa di cura!».

E ancora, quell'ammirevole risposta che diede ad un giornalista. Ero appena arrivata a Ivry verso la fine della mattinata quando questo giornalista, facendo un'inchiesta per non so più qual giornale, pose a Antonin Artaud la domanda: «Qual è la sua definizione di humour nero?». Artaud lo pregà di sedersi, ma non rispose. Parlà a lungo con me, prese un quaderno, scrisse qualche pagina, il giornalista attendeva. Gli fu portata la colazione, mangià, restà silenzioso un lungo momento, il giornalista attendeva sempre. Poi prese il suo grosso coltello a scatto, e dopo avere cercato un punto adatto sotto i suoi capelli ci tenne la punta appoggiata qualche minuto (questa pratica gli era abituale; lo sollevava da alcuni dolori, diceva). Improvvisamente piantà il coltello diritto sulla tavola che era vicino a lui: «Mi ha domandato, caro Signore, la definizione di humour nero. Ebbene, eccola, l'humour nero è questo!» Il giornalista se ne andà.

Tutto questo mi ha distolto un po' dal rispondere alla domanda su come Artaud lavorava.
Capisco bene che lei si riferisca soprattutto al suo lavoro di attore, ma mi sembra impossibile, almeno per il periodo in cui io l'ho conosciuto, pensare che avesse attività  separate di attore, di scrittore, o di disegnatore. Del resto non ha egli stesso risposto, come per prevenirla, a questa domanda ? «Se sono poeta o attore non lo sono per scrivere o declamare poesie, ma per viverle. Quando recito una poesia non è per essere applaudito, ma per sentire corpi d'uomini e di donne, dico corpi, tremare e volgersi all'unisono con il mio».

E non dimentichiamoci che Antonin Artaud ha indicato la necessità  di alienare l'attore.
Lavorava senza sosta. In ogni momento, ad ogni occasione, dovunque si trovasse, a tavola, in metropolitana, in compagnia di amici, lavorava per quanto fosse scomoda la sua posizione, estraeva dalla tasca uno di quei quadernetti scolastici che portava sempre con sé, scriveva o disegnava. Talvolta accompagnava questo lavoro con ritornelli ritmati, in un linguaggio inventato da lui.

Non l'ho mai sentito lavorare ad uno dei suoi testi come normalmente farebbe un attore. Ma l'ho visto dedicarsi ad esercizi di respirazione, a ritmi scanditi, con forti inspirazioni, mentre colpiva un ceppo di legno con il coltello o con il martello. Liberava una forza sorprendente e chi non l'abbia visto compiere simili sforzi difficilmente potrebbe immaginarsi di quale straordinaria vitalità  un corpo così debilitato era capace.

Era adirato col dottor Ferdière che si lamentava del suo sistema soffi e canticchiamenti, perché non l'aveva ammesso come lavoro. Al contrario, il dottor Delmas aveva compreso molto bene questo bisogno; per questo aveva fatto portare nella camera di Antonin Artaud quell'imponente ceppo di legno, un tronco d'albero malamente squadrato che gli facilitava quegli esperimenti linguistici di cui ha scritto: «Ma non si possono leggere che scandendoli, seguendo un ritmo che il lettore stesso deve trovare per capire e per pensare
ratara ratara ratara
atara tatara rana
otara otara katara
otara ratara kana
ortura ortura konara
kokona kokona koma
kurbura kurbura kurbura
kurbata kurbata keyna
pesti anti pestantum putara
pesti anti pestantum putra
ma questo vale se arriva di colpo; cercato, sillaba per sillaba, non vale più niente, scritto qui non vale più nulla, è polvere. Perché possa vivere serve un altro elemento che si trova in quel libro che si è perso».

Questo lavoro costante lo rendeva maestro della voce e delle sue intonazioni. Era questo lavoro che gli permetteva di leggere i suoi poemi in un modo che solo lui conosceva, indimenticabile per tutti quelli che l'hanno ascoltato.
Quando si trattà di preparare la registrazione di Pour en finir avec le jugement de dieu, non ci furono prove; una semplice lettura prima della registrazione dove Antonin Artaud diede agli altri lettori qualche indicazione, lasciando a loro il compito di trovare da soli la loro intonazione. I rumori e le grida che accompagnarono questi lettori furono improvvisati sul posto sotto la sua direzione.

Io avevo partecipato a questa trasmissione. Se leggere vuole dire anche recitare, intendendo recitare nel senso di agire, quella fu la sola volta che io ho recitato in un'opera di Antonin Artaud. C'era già  stata un'altra lettura dei suoi testi alla Galleria Pierre, in occasione dell'esposizione dei suoi disegni, ma io allora mi trovavo in Marocco.

àˆ stato lui ad insegnarmi a leggere un poema. Avevo avuto qualche velleità  di fare del teatro, presto scoraggiata da ciò che si insegnava nei corsi ai quali avevo partecipato. Avevo detto ad Artaud del mio disappunto; la cosa gli fece piuttosto piacere e decise di farmi esercitare.
Per cominciare mi fece recitare dei poemi di Baudelaire e Gérard de Nerval. Ecco la maniera in cui ci si apprestava. Io dovevo inventare una melodia e cantare i versi. Così potevo rendermi conto dell'importanza delle parole le une in rapporto alle altre e della loro concatenazione. Quando avevo compiuto parecchie prove di questo genere, mi sforzavo di dire il poema. Non giungevo sempre al grado voluto da Antonin Artaud; dovevo ricominciare fino a che fossi soddisfatto.

Più tardi mi assegnà degli esercizi su quei saggi di cui vi ho parlato. Dovevo imparare a gridare, a non lasciare cadere il grido fino alla scomparsa, a passare dal tono superacuto a quello più grave, a prolungare una sillaba fino all'esaurimento del respiro. Credo di aver compreso in queste sedute, ciò che era il teatro della curazione crudele.

Quando mi arrischiavo a leggere un poema di Antonin Artaud, egli non mi dava alcuna direttiva, mi lasciava lavorare da sola. Dovevo "trovare per comprendere"; non gli mostravo il risultato del mio lavoro se non quando pensavo di esserci arrivata. Allora egli correggeva o approvava. Al contrario di quanto si fa sempre più spesso, penso che un poema di Antonin Artaud non si debba leggere in uno stato di trance, occorre, invece, la padronanza di tutti i propri mezzi, dopo uno studio molto lungo e duro, e un costante sforzo di delucidazione.

Un mattino, all'inizio di febbraio, lo accompagnai alla Salpòªtrière dove si procedette agli esami radiologici a causa di forti dolori ed emorragie che Artaud accusava da un pò di tempo. Il professor Mondor lo visità a lungo. Aspettando un po', potevamo avere i risultati delle radiografie. Ed è ciò che abbiamo fatto. Eravamo seduti fianco a fianco su due sedie in un corridoio della Salpòªtrière, con la schiena rivolta ad una finestra. Mi ricordo che Antonin Artaud mi parlà di Roger Gilbert-Lecomte, che aveva conosciuto al tempo del Grand Jeu. In seguito, mi disse che non si deve scrivere se non quando si ha veramente qualche cosa di essenziale da dire, ma a condizione d'essere ugualmente capace di sapere che quella cosa è essenziale.
Poi il professor Mondor ci fece chiamare; rassicurà Artaud sul suo stato di salute, gli consiglià riposo, prescrivendogli una cura.

Mentre ce ne stavamo andando, il mio amico ci raggiunse e, col pretesto di affidarmi una lettera a proposito di un paziente che aveva in comune con mio marito, mi invità ad entrare nel suo ufficio. Lì attendeva il professor Mondor. Mi rivelà che Antonin Artaud era affetto da un cancro, in evoluzione da molto tempo, assolutamente inoperabile.

Benché nessuno di noi abbia mai parlato ad Artaud del suo cancro, egli aveva una così precisa conoscenza del proprio corpo che, ne sono certa, l'aveva sempre capito. Da alcuni mesi, parlava spesso della «bestia che gli rodeva l'ano».
Il 4 marzo 1948, verso le otto, il segretario del ricovero mi chiama: il giardiniere, mentre, come ogni mattina, gli portava la colazione, l'aveva trovato morto, seduto ai piedi del letto.

Il giorno prima, il 3 marzo, era venuto a pranzo da noi a mezzogiorno e ci aveva lasciato a metà  pomeriggio. Non stava né meglio né peggio dei giorni precedenti. Eppure quel giorno fece qualcosa che mi sorprese. Volle che gli si andasse a comprare un foglio di carta da bollo, il che, da parte sua, era insolito; bisognava, diceva, che tutto fosse perfettamente in regola. Quando fu in possesso del foglio, senza che nessuno di noi sapesse a cosa servisse, con una stilografica piena d'inchiostro verde, leggendo mentre scriveva, con applicazione, cerimoniosamente redasse una specie di delega di potere con la quale mi incaricava di sovraintendere alla pubblicazione dei suoi libri. Ora, io non ne avevo alcun bisogno, gli editori di Antonin Artaud mi conoscevano; da molto tempo mi mandava da loro a consegnare manoscritti, a portare bozze corrette, o a domandare denaro; non era sorta mai alcuna difficoltà . Perché quel giorno ha voluto che ci fosse un atto ufficiale (per lui infatti, così poco d'accordo con la società , la carta bollata rappresentava ciò che è ufficiale)? Non saprei rispondere. Quelle parole scritte con l'inchiostro verde sono senza dubbio le ultime che abbia scritto.
Ora, dopo più di sedici anni, sono arrivata a pensare questo: Antonin Artaud è morto esattamente come voleva e probabilmente quando l'ha voluto.

Le ultime settimane, ripeteva frequentemente: «Non ho più nulla da dire, ho detto tutto ciò che avevo da dire». Dichiarava che non avrebbe più scritto.
Un giorno, non si era ancora tolto neppure il cappotto che avvertì: «Le annuncio che non scriverà mai più, ho scritto tutto. Del resto, vede, non ho quaderni». E mostrà la tasca interiore della sua giacca, priva dell'abituale quaderno. Gli risposi ridendo che non ci credevo. Allora, con ostentazione, si sprofondà in una poltrona, ed incrociò le braccia. Ero andata a terminare un lavoro in un'altra stanza dell'appartamento. Mentre ritornavo, lo sentii, e il tono della sua voce era di una cortesia incomparabile, domandate a mia figlia: «Mia piccola Domnine, per favore, vuole andare a comprarmi un quaderno in cartoleria?» Non potei resistere alla tentazione di stuzzicarlo un po': «Ma non ha appena detto che non scriverà  mai più»? Â«àˆ vero, ma è per fare dei bastoni! La mia mano, lei, non puà fare a meno di scrivere». Infatti quando ebbe il quaderno, si mise coscienziosamente a fare dei bastoni ... due pagine di bastoni che a poco a poco divennero lettere.
Se ne puà dedurre che egli certamente aveva la sensazione di avere fatto ciò che voleva fare, ciò che doveva fare.

Era solo, quel giorno, mentre moriva: credo non avrebbe desiderato testimoni. Né il conte impensable di Lautréamont, né Edgar Poe sur sa bouche d'égout a Baltimora, né Gérard de Nerval pendu, et de lui-màªme, à  un réverbère ne hanno avuti. E i testimoni presenti alla morte di Charles Baudelaire non videro morire Charles Baudelaire, ma una carcassa che, un tempo, era stata Charles Baudelaire.
Antonin Artaud aveva dichiarato che mai sarebbe morto in un letto. àˆ morto seduto. Aveva anche detto che non sarebbe mai morto come tutti gli altri, che il suo corpo sarebbe andato in pezzi:

«Chi sono?
Da dove vengo?
io sono Antonin Artaud
e che io lo dica
come io so dirlo
vedrete il mio corpo attuale
volare in frantumi
e ricomporsi
sotto dieci mila aspetti
notori
un corpo nuovo
che non potrete
dimenticare mai più».
Cosa dire di meglio, come dire altro?"


(tratto da "Antonin Artaud nella vita" di Paule Thévenin, traduzione di Marco Dotti)

Scusate la mia "letterarietà " prima e la lunga citazione poi, ma veramente non posso parlare di Artaud organizzando un discorso coerente ed articolato, per me Artaud è nervo scoperto e sangue, danza e musica, mi sembrava di sminuirlo affidandolo alle mie insulse analisi sulla sua opera, molto meglio affidarsi a poesia, memoria, sogno...

Questo ovviamente non ci impedisce poi di discutere di alcuni aspetti del suo lavoro, al momento quelli che interessano più me e Cristina sono il Corpo senza Organi e le glossolalie (quelle parole/sillabe apparentemente senza senso che cita anche la Thévenin ad un certo punto), ovviamente da "tradurre" in ambito fotografico.




Inviato: 16/2/2007 11:05
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Re: I miei due incontri con Antonin Artaud, il sogno ed il corpo che esplode...
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Artaud

Marco(pamar5)

Inviato: 16/2/2007 11:47
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When I pick one up, the hard work's already been done"

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Re: I miei due incontri con Antonin Artaud, il sogno ed il corpo che esplode...
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Marco ha concluso il suo sintetico post così:
Citazione:

ovviamente da "tradurre" in ambito fotografico


Giusto per riportare il thread sui binari dello scambio d'idee diretto, senza lunghe citazioni intendo (pur con il dovuto rispetto per Artaud ed il tuo amore per l'uomo e l'opera) direi che il succo sia nelle tue ultime parole.

Duchamp e Artaud, come qualsiasi altro uomo che abbia fortemente agito sul modo di pensare dei suoi contemporanei, e più ancora dei posteri, mettono in atto sistemi di pensiero ed azione complessi, contraddittori, anche se certamente "rivoluzionari".

Tradurre il loro "modo di pensare" nel nostro "modo di fotografare" è possibile? Penso di sì, a patto di abbandonare ogni legame con quello che fino ad ora è stato chiamato fotografia, in questo forum e non solo.

Ma solo facendolo IN TOTO si puà sperare di combinare qualcosa. Diversamente si rischia di accogliere alcuni elementi parziali e superficiali, cosmetici direi. Giusto per dare un tocco di novità  alle proprie produzioni.

Forse questo è il punto essenziale. Sia Marcel che Antonin indicano la strada dell'abbandono di pratiche "consumate" per recuperare il senso profondo, esistenziale, del vivere l'arte. Un abbandono che sfiora il suicidio, il silenzio totale pur di recuperare l'autenticità  sepolta sotto quelle maledette "parole che creano il significato".

Sono eroi culturali, ma qui di eroi, eroi veri intendo, ce ne sono? Perché simili scelte e vite non sono alla portata di chiunque. Quindi, direi, invece di cercare di "spezzettare" quelle lezioni in bocconcini "pronti da mangiare" per noi comuni mortali, proviamo a pensare se non sia più produttivo, e praticabile, assumere sì IN TOTO la loro lezione, ma come SPARTIACQUE. Come segnale che "indietro non si torna!" per poi cercare un modo alternativo anche al loro, per produrre le nostre opere contemporanee, sistemandosi fuori da quell'agitato, e troppo spesso inconcludente, Novecento.

L'ho buttata lì, mentre sgorgava dal cranio.
Che ne dite?

Fulvio


Inviato: 16/2/2007 13:48
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Re: I miei due incontri con Antonin Artaud, il sogno ed il corpo che esplode...

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9/12/2004 21:10
Da Toscana
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Io dico che probabilmente hai ragione.
Naturalmente e' opportuno conoscere questi artisti ed il loro pensiero, ma anch'io sono convinto che la migliore, anche se la piu' difficile proprio perche' non siamo "eroi", e' la scelta di una strada personale.
Ciao,
Renzo


Inviato: 16/2/2007 20:27
.........

......
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Re: I miei due incontri con Antonin Artaud, il sogno ed il corpo che esplode...

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28/10/2006 14:37
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Personalmente mi sento più vicino al punto di vista di Falcopardo che a quello di Borful e Marco.
Dal punto di vista fotografico mi sento un dilettante, in senso letterale: uno cioè che pratica la fotografia con l'unico scopo di averne piacere. Non sento il problema dell'artisticità  delle foto che faccio (semmai quello della correttezza tecnica e della consapevolezza estetica)e, soprattutto, non sento il problema del confronto tra la mia modesta fotografia e l'opera e il pensiero di personaggi, di "eroi" come giustamente li chiama Falcopardo, del calibro di Artaud o Duchamp. Non sento insomma alcuna responsabilità  nei confronti della Storia dell'Arte, con le loro belle maiuscole, e tutto sommato mi sento libero.
Il mio primo contatto con Artaud è stato la lettura di Eliogabalo ed è rimasto anche l'ultimo: niente mi ha spinto ad approfondire in quella direzione. Altri pensatori mi hanno indicato strade per me più proficue, o almeno maggiormente in sintonia col mio modo di pensare. Dalle mie letture ho sempre tratto insegnamenti genericamente esistenziali, difficilmente traducibili in una pratica estetica. La famosa cultura da dimenticare.
Quindi non credo, come Borful, che sia possibile "tradurre il loro modo di pensare nel nostro modo di fotografare", ma non credo che nemmeno sia auspicabile. Come impossibile è applicare in toto la loro lezione, e credo inutile usarla come spartiacque.
Quello che personalmente cerco di fare è di tradurre in maniera il più possibile onesta il mio modo di pensare nella mia pratica fotografica. Mettere dentro le mie foto le mie idee sul mondo, le mie sensazioni, le mie opinioni, in un processo coerente anche se il più delle volte solo in parte consapevole. Nasce qui il problema che io non sono nè Artaud nè Duchamp. Non sono un artista. La mia visione del mondo è quella che è, le mie scelte esistenziali sono, volutamente, all’estremo opposto della “vita d’artista”, esistono nel mio modo di affrontare la vita scorie piccolo borghesi, cautele, atteggiamenti lontani anni luce dalla letteratura romantico-idealista sul genio maledetto.
E l’unica cosa che posso onestamente fare è tentare di esprimere me stesso, senza pensare che ci siano visioni del mondo migliori della mia (o al contrario che la mia visione sia la migliore del mondo), senza pensare che un fotografo impegnato sia migliore di uno che non lo è, che fotografare frattaglie sia più cool che fotografare tramonti, che si debba o non si debba usare la regola dei terzi, che sia necessario violentare l’ipotetico osservatore delle mie foto, e così via.
Non diventerà un Artaud: per me è già  difficile diventare me stesso.

Inviato: 17/2/2007 7:42
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Re: I miei due incontri con Antonin Artaud, il sogno ed il corpo che esplode...
Utente non più registrato
Ehi Palomar ma quale mio post hai letto?

1) Falcopardo scrive che la pensa come me!

2) "eroi", anzi "eroi culturali" li chiamo, ironicamente, io per primo e Falcopardo fa proprio quel concetto nel suo post;

3) Borful non crede affatto che sia possibile "tradurre il loro modo di pensare nel nostro modo di fotografare" e nemmeno lo auspica;

Infine, penso che diventare se stessi sia l'unica azione alla nostra portata, così come dici tu. La cosa che ci divide è che tu pensi sia possibile farlo "per diletto", io invece lo faccio "per insopprimibile bisogno".

Fulvio


Inviato: 17/2/2007 17:12
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Re: I miei due incontri con Antonin Artaud, il sogno ed il corpo che esplode...

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Marco con il suo 3ad ha voluto raccontarci un pezzo molto importante del suo modo di fare fotografia, e non ho letto una sua intenzione di assumere Artaud come riferimento, se non per lui, al fare fotografia.
In un altro post mi riferivo all'espressività  come elemento del fare fotografia. Andrei oltre la dimensione artistica dell'azione fotografica se non per chi lo dichiara, se non per chi ne é interessato, per invece assumere il concetto di espressività  legata a quella spinta che chiunque ha di volersi esprimere qualcosa di se quando fotografa. Diversamente perchè si fotografa ? .
Che poi questa espressività  si declini in modi diversi, incontri l'arte, gli artisti, le teorie, gli studi, ben venga ma non é la condizione da raggiungere necessariamente. Oltretutto la fotografia si manifesta per gran parte in modo non artistico.
Ma siccome la fotografia poi é anche arte, allora se ne parla, ci si confronta.

Quello che dice alla fine Palomar sulla difficoltà  a volte di esser se stessi...é proprio in questo senso che spesso la fotografia emerge perchè in fondo è uno specchio di se e se la si guarda da questo punto di vista si scoprono diverse cose della propria identità , In questo senso ci si esprime, si é espressivi, perchè si riesce a fare un discorso, visivo, ma sempre un discorso e per questo iniziare ad avere un posto nel mondo. L'insopprimibile bisogno di Borful mi sembra una cosa analoga.

Ma siccome i discorsi si impara a farli, facendoli, ci si puà imbattere con il se creativo, dove le forme e gli stili iniziano a diventare parte integrante del discorso. A questo punto ci si puà accontentare perchè avere un se creativo é una gran cosa, é come vedere il mondo un po meglio, per altri puà essere un punto di partenza per una strada che vede l'arte come riferimento. Credo che sarebbe già  sufficiente capire che punto si é.
L'articolo di Marco ci segnale, oltre al pensiero di Artaud, anche un confine di dove si vuole arrivare. Ben vanga anche questo.
bs
marco



Inviato: 17/2/2007 19:06
La fotografia non si domina: corre da sola e l'uomo la segue in ritardo e mai come oggi.
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Re: I miei due incontri con Antonin Artaud, il sogno ed il corpo che esplode...
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un confine di dove si vuole arrivare


Ragionevole. Troppo.
Per questo il tuo ragionamento, IMHO, zoppica.
"Sé creativo" e "espressività " sono suddivisioni consolatorie di un unico bisogno che modula la sua intensità  di risultati dalla pura sfera privata a quella pubblica e storica.
Non esistono limiti e confini dove si vuole arrivare, ma solo quelli dove si RIESCE ad arrivare. Poi, come la volpe con l'uva, ci si dice che, in fondo, basta "esprimersi", che è già  "qualcosa", ecc. ecc.

Fulvio

Inviato: 19/2/2007 10:00
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Re: I miei due incontri con Antonin Artaud, il sogno ed il corpo che esplode...
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Bè insomma, niente.
A me Artaud non ha mai detto niente, nè allora, quando giovinotto stavo a cavallo dell'esistenzialismo, figurarsi, nè ora.
Non è il mio mondo, è un mondo parallelo; vedo, camminando nelle mostre e nei musei, che se ne puà tranquillamente fare a meno.

Ringrazio della bella citazione che mi son letto con piacere.

Ciao, Claudio.

Inviato: 19/2/2007 10:11
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Re: I miei due incontri con Antonin Artaud, il sogno ed il corpo che esplode...

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Acc, al mattino già  reggere una risposta di questo tipo ed ho pure dormito poco...Borful, concordo con te che la questione é legata ad un unico bisogno, ma vedo troppo spesso persone bloccate dal fatto che di mezzo c'è l'arte, eden irraggiungibile, mitizzato, come sistema, come luogo del proprio successo. Persone talvolta bloccate nel non riuscire ad essere artisti perchè non in grado di superare quei confini che l'arte mette al proprio territorio, al quale devi accedere e dove qualcuno ti certifica in un modo o nell'altro. Ma che si sono ritrovate quando hanno smesso di "voler essere artisti", ed hanno iniziato "ad essere" rispondendo concretamente a quel bisogno. E talvolta, a quel punto, vengono riconosciuti da quel mondo.
Non mi sembra di dire qualcosa di diverso da te, anche per me c'è un bisogno a cui rispondere, e i modi con cui lo si fa sono diversi e tra questi l'arte, ma in fondo c'é la propria espressività  come posizione nel mondo.
Non mi sembrano divisioni consolatorie e per questo non concordo con te sulle tue ultime righe, quelle della volpe e dell'uva. Mi é sembrato dire ben altro.
Ma ci stiamo capendo ?
bs
marco


Inviato: 19/2/2007 10:48
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Re: I miei due incontri con Antonin Artaud, il sogno ed il corpo che esplode...
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Mi dispiace Marco di averti dato una risposta poco "mattutina", ma se serve a capirsi, e me ne scusi, ben venga!

Sì, questo secondo post mi trova senz'altro d'accordo sulla diagnosi: "vedo troppo spesso persone bloccate dal fatto che di mezzo c'è l'arte".

Dove mi pare che continuiamo a dividerci, senza per questo contrapporci, è sulla soluzione al problema. Forse perché ritengo che il "fare arte" sia un atto intrinseco all'essere umano. Magari la mia sarà  solo una questione nominalistica, ma non penso che lasciare il termine "arte" alla totale mercé del sistema dell'arte contemporanea per ritirarsi su posizioni defilate (espressività , sé creativo) sia una buona politica. La "coscienza di classe artistica" (dai, mettiamoci un po' di vetero marxismo alla Sanguineti!) mi impone di pensare che il cosa sia arte è frutto di una dialettica storica. Se viene a mancare, perché manca la controparte, allora sì che il discorso si chiude.
Ovviamente queste battaglie non sono alla portata del singolo uomo-artista, ma, penso, la prima cosa da fare è comunque cambiare atteggiamento mentale. Per farlo, devo pensare che sto facendo arte, non che sono espressivo o creativo. Faccio arte e la faccio per "bisogno insopprimibile", ma senza porre limiti al fatto che la risposta al bisogno possa andare oltre me stesso e la cerchia dei miei affetti. In questo modo, la dialettica esiste. Sì, Davide contro Golia era più in vantaggio, ma se non si crede ai miracoli è impossibile persino respirare



Inviato: 19/2/2007 11:19
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Re: I miei due incontri con Antonin Artaud, il sogno ed il corpo che esplode...

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Borful, la questione è interessante. Però guarda che per me le posizioni defilate non sono poi così defilate...ci farei un manifesto sopra proprio sulla base di una "coscienza di classe espressiva" per lasciare l'arte, come oggi la si intende, al sistema mercato che di fatto la definisce.
In realtà , come dici in un passaggio, forse stiamo girando intorno ad alcune parole. Implicitamente mi sembra che partiamo da due gerarchie diverse dei concetti espressi, ma quella che tu chiami arte - capisco l'accezione che ne dai - per me é espressività /se creativo e non penso che siano concetti privatistici. La mia formazione mi spinge a credere che espressività /se creativo siano aspetti privati e pubblici. E forse diciamo in fondo cose simili.
In una visione un po critica, mi sembra che il sistema arte ingabbi "il fare arte", come lo intendi tu, e ci sarebbe bisogno di un ottica diversa per definire le "prassi artistiche".
E' come se il sistema arte avesse ridefinito la nozione di arte in una direzione, che personalmente non accetto.
Falcopardo in un altro topic pone una questione simile, partendo da punto di osservazione molto pragmatico.

Insomma, proprio per liberare il "bisogno insopprimibile" non vorrei chiudermi nella gabbia del sistema arte, ma semmai ridefinire l'arte.

poi vengo a trovarti e ne parliamo a voce, aperitivo compreso.
bs
marco

Inviato: 19/2/2007 11:44
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Re: I miei due incontri con Antonin Artaud, il sogno ed il corpo che esplode...
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Scusate se faccio un passo indietro rispetto allo sviluppo della discussione nel topic, ma da alcune cose che sono state dette mi sembrano corretti alcuni approfondimenti.

Intanto si, ha ragione Samuel, il mio topic su Artaud è da leggere come un percorso personalissimo mio (già  Cristina lo ama meno) e che non ha quindi nessuna pretesa di poter essere condiviso da qualcun altro, è come se mi fossi messo a nudo, mescolando parole mie a quelle di chi Artaud l'ha conosciuto davvero, e forse vi ho detto più cose sulla mia fotografia in questo topic che in tanti post di Fotoavventure...

Concordo anche con il discorso di Fulvio riguardo il fare propria la sua lezione in toto, anche solo come spartiacque, anche se qui secondo me è opportuno fare una riflessione...premesso che io per primo trovo assolutamente sterile voler imitare Artaud, oltre alla sua vita ed opera che sono uniche ed inimitabili, trovo anche inutile e noioso ripetere cose già  dette e fatte e sperimentate, però è indubbio che quando ci confrontiamo con questi grande "distruttori" del pensiero occidentale (Artaud, Rimbaud, Deleuze, Carmelo Bene, tanto per citare i miei riferimenti), abbiamo spesso a che fare con delle scoperte, delle rivelazioni fondamentali, che sono come delle "incompiute", anche e soprattutto perchè taciute (nella migliore delle ipotesi), se non addirittura ferocemente contrastate, dalla cultura e della società  che le percepisce come delle minacce, ma questo non toglie che queste scoperte siano di importanza cruciale per chiunque ambisca a "cambiare la vita", a piazzare buchi neri nella nostra cultura, e quindi è importantissimo che queste scoperte vengano sviluppate ed indagate ulteriormente, esattamente come si fa con le scoperte di carattere scientifico, perchè non stiamo parlando di "fantasmi" o chimere, di qualcosa di astratto e che fluttua nell'aere, ma stiamo parlando di scoperte che possono incidere e trasformare e sovvertire l'esistenza e l'esistente stesso, appunto "cambiare la vita" ( "la vera vita è assente" - Rimbaud)...mi sto riferendo al Corpo senza Organi, piuttosto che alla ricerca dell'ignoto di Rimbaud, per me sono scoperte di importanza cruciale per tutto il pensiero occidentale, scoperte cruciali che possono cambiare la nostra esistenza al pari della pennicilina o dell'elettrcità , scoperte che non si esauriscono con Artaud o con Rimbaud, così come la teoria della relatività  non si esaurisce con Einstein, e che come tutte le grandi scoperte epocali non sono "personalistiche", trascendono il loro scopritore e diventano un "universale" che deve essere ulteriormente indagato da chiunque ambisca a porsi criticamente nei confronti dell'orizzonte di senso in cui gli è capitato di nascere, ma non per imitare Artaud o Rimbaud, ma per fare un ulteriore passo avanti in quel percorso di destrutturazione del pensiero occidentale che, personalmente, considero una necessità  personale e fotografica ineludibile...ovviamente, sempre che questo interessi, comprendo benissimo chi non vuole destrutturare un bel niente, ma per me che sono cresciuto con la consapevolezza di essere parlato (anzichè parlare) e di essere pensato (anzichè pensare), e che preferisco quindi di gran lunga smarrirmi, perdermi, disfarmi (piuttosto che trovare me stesso), sovvertire e smantellare gli strumenti conoscitivi della nostra cultura è, ripeto, una necessità  ineludubile...

Per Palomar: se ti va, prova ad avvicinarti al pensiero ed al mondo di Artaud con un suo saggio di straordinaria potenza "Van Gogh, il suicidato della società " (edito da Adelphi), e poi con "Per farla finita con il giudizio di dio" (però l'edizione con il cd perchè questo è un poema da sentire/ascoltare, non da leggere), oltre che ovviamente con il suo testo "classico", cioè "Il teatro ed il suo doppio", sono decisamente più indicati per capire Artaud rispetto a Eliogabalo, che è "solo" un romanzo storico, in cui Artaud rivela poco o niente su di sè e la sua ricerca, è invece un testo che bisognerebbe leggere solo dopo quelli, ben più importanti e fondamentali, che ti ho suggerito io...poi magari rimani della stessa opinione su Artaud, e va benissimo così, ci mancherebbe!!, però almeno il tuo giudizio si sarebbe formato sulle opere considerate da tutti come fondametali di Artaud, rispetto invece a Eliogabalo che, tutto sommato, molti (me compreso) considerano un lavoro minore...





Inviato: 19/2/2007 16:01
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Re: I miei due incontri con Antonin Artaud, il sogno ed il corpo che esplode...
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ciao marco

se proprio sei interessato a perderti ed a disfarti ti segnalo il testo della conferenza tenuta da iacopo benci presso l'università  di palermo nel settembre 2002:

offre molti spunti di riflessione sul tema dell'assenza, del 'nulla', dell'ombra, della transitorietà , della dissoluzione...

non si dipingono idee, non si dipinge ‘un soggetto’. Non ci sono che misteri. Non ci sono che domande»

ciao elisa

www.grandespirito.it

Inviato: 19/2/2007 20:58
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Re: I miei due incontri con Antonin Artaud, il sogno ed il corpo che esplode...
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Molto interessante. Grazie per la segnalazione

Marco(pamar5)

Inviato: 20/2/2007 15:51
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"I'm not a photographer the moment I pick up the camera.
When I pick one up, the hard work's already been done"

“To photograph reality is to photograph nothing.”

Duane Michals


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Re: I miei due incontri con Antonin Artaud, il sogno ed il corpo che esplode...
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Grazie Elisabetta!!!!





Inviato: 21/2/2007 13:51
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Re: I miei due incontri con Antonin Artaud, il sogno ed il corpo che esplode...
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Sul Manifesto di oggi: "Artaud scrittura, disegno, respiro per dare corpo allo strazio".

Una pagina intera dedicata al poeta francese con bella foto di scena da "Napoleon" di Gange, con A. nel ruolo di Marat.

Ciao, Claudio.

Inviato: 22/3/2007 14:04
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Re: I miei due incontri con Antonin Artaud, il sogno ed il corpo che esplode...
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claudiom ha scritto:
Sul Manifesto di oggi: "Artaud scrittura, disegno, respiro per dare corpo allo strazio".

Una pagina intera dedicata al poeta francese con bella foto di scena da "Napoleon" di Gange, con A. nel ruolo di Marat.

Ciao, Claudio.



Grazie per la segnalazione , corro subito in edicola!





Inviato: 22/3/2007 15:17
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Re: I miei due incontri con Antonin Artaud, il sogno ed il corpo che esplode...

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Ciao Marco ( fondatore ),
mi sono riletto un po' di recensioni sulla figura e il pensiero di Artaud e mi sto domandando come farai ad interpretarne fotograficamente la filosofia. Secondo me e' difficilissimo a meno che tu non sia lucidamente pazzo come lui e poi il corpo senza organi appartiene alla sua di pazzie, se cerchi di ricrearlo fotograficamente non e' come cercare di
imitare fotograficamente il Grande Vetro?
Ciao,
Renzo

Inviato: 22/3/2007 16:39
.........

......
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Re: I miei due incontri con Antonin Artaud, il sogno ed il corpo che esplode...
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Cari amici,
confesso, conosco l'opera di Artaud per sommi capi: il mio indirizzo culturale è legato al mondo mitteleuropeo e da esso traggo, oltre che per tradizione famigliare, gran parte delle mie sensazioni, legami al quel mondo musicale, poetico, letterario, artistico.
Ma quello che interessa, mi pare, è l'approccio, il metodo, i canali da percorrere, per caricare "lo zaino" (di cara e ormai annosa memoria) di sensazioni pronte a collimare con la realtà  che vedo e posso fotografare. E più lo zaino e pieno e più le sinapsi collegano immagini e dalla psiche corrono all'occhio e poi al ditone che fa clik.
Rimango incantato a leggere questi interventi (me li devo stampare perchè a schermo stento un po').
Grazie a tutti, Candidus / Floriano

Inviato: 22/3/2007 18:32
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