Pare che questo fotoreporter spagnolo, di lunga esperienza, sia stato preso in ostaggio con altri 3 colleghi giornalisti mentre seguiva la questione dei pirati in Somalia.

la notizia

Ma voi se foste bravi, forniti e sorretti da un'agenzia internazionale ci andreste in un posto come la Somalia? Adesso?

Non capisco il senso della domanda.

Qualcuno, bravo, ha partecipato al D-Day, con la prima ondata di sbarco e sulla spiaggia più incasinata di tutte.
Credimi, la situazione era decisamente più rischiosa di quella che si affronta oggi in Somalia.
E non era né fornito né sorretto da una grande agenzia internazionale (la Magnum l'avrebbe fondata 3 anni dopo).

Altri hanno fatto lo stesso, prima e dopo.

Certo molti non sono andati, ma è questo che fa la differenza tra i qualcuno e i tanti.

Penso che ciò che spinga sia soprattutto il desiderio di vedere e di raccontare. Se è solo quello di far soldi e/o della fama, ... allora .... sono un po' "scemotti".

ciao

P.S. Io, ovviamente, sono a casa, tranquillo, davanti al mio Mac.

Sì, certo che nella storia della fotografia ci sono state situazioni più pericolose della Somalia oggi.
Il senso della mia domanda era riferrito al fatto che oggi, un reportage sui pirati Somali avrebbe una grande visibilità  e successo, a mio parere. Ma mi pare che non ci siano molti reporter che si buttano in quelle situazioni. E come dici tu in passato ci sono stati fotografi più temerari.

Quindi la mia domanda è: se foste dei fotoreporter professionisti, andreste in una paese come la Somalia, oppure prefirireste andare in terre difficili, con guerre, ma scortati e sopratutto, dove non dovreste essere vittime di rapimenti? In Somalia un Italiano rischia proprio per la sua nazionalità , è un bersaglio. In altri posti, pur pericolosi no.

Con rispetto parlando, la tua domanda mi sembra un poco retorica.
Per rischiare la pelle, italiani o meno, non c'è bisogno di andare in africa.
rischierebbe molto di più della Somalia un incauto che andasse in giro a ficcare il naso dove non deve in Bosnia, Serbia oppure nel Caucaso.
ad esempio, il figlio quindicenne di un mio amico, portato 4 o 5 anni fa dalla scuola in gita scolastica (!) a Leningrado, scusa San Pietroburgo, raccontava che il loro autobus era protetto da due guardie armate di AKM, per evitare inconvenienti.
fai un pò tu....

Tanto per cominciare, riportare esempi sporadici di situazioni più pericolose di un generico "andare in Somalia" ne troviamo a bizzeffe,anche in certe zone d'Italia.
Forse la mia domanda era retorica, puà darsi. Ma io, dovendo scegliere una zona dove andare a lavorare, eviterei i posti dove credo che i miei connazionali sono malvisti. Con tutto che un certo tipo di fotogiornalismo è sempre pericoloso.

... se fossi un fotereporter:

a) Dovrei essere interessato alla situazione.
b) Prediligerei le situazioni per le quali mi trovassi ad avere una certa conoscenza.
c) Se la situazione fosse pericolosa (tipo "operare in zone di guerra"), dovrei anche possedere una certa dose d'incoscienza e coraggio (caratteristiche che dovrebbero essere in un qualche equilibrato rapporto, ad oggi assolutamente non presente!).

A questo punto ... sì, forse andrei in Somalia: proprio perché, da italiano, riterrei di poter capire meglio di altri le situazioni locali. E poi mi sarebbe d'aiuto la lingua, molto più che il Afganistan o nelle Filippine.

Ma, rileggendo quello che ho scritto, penso che, alla fine, la mia sia una risposta senza senso ad una domanda, scusa, forse mal posta (o mal capita, naturalmente).

Dovremmo chiederlo ai giornalisti inglesi recentemente rapiti e rilasciati. Ai reporter somali non lo si puà certo chiedere, sembra che li stiano ammazzando tutti.

ciao

P.S. Io, ovviamente, continuo a rimanere a casa, tranquillo, davanti al mio Mac.

Chi fa il fotoreporter (mi riferisco a quello vero, che fa reportage) deve produrre una storia, un racconto. Gratta, gratta, la maggior parte dei fotogiornalisti è impegnata nel sociale, sia in zone rischiose che nei luoghi delle grandi tragedie naturali, o per seguire le vicissitudini di un malato o che ne so.
Andare in Somalia - luogo che al momento non mi attira per varie ragioni - è una scelta ben precisa di raccontare qualcosa di un luogo assurdo, di una guerra assurda, nella quale le responsabilità  dei governi, non ultimo quello italiano, sono marcate e visibili. Ci sono poi modi diversi di interpretare e raccontar un luogo e la sua storia.
per quanto mi riguarda, dell'Afghanistan (giusto per fare un esempio), ho scelto di raccontare la quotidianità  della gente e non la guerra. I motivi di questa scelta sono 2:
1. se sei costretto a girare con i militari, sei un bersaglio, meglio arrangiarsi e non mettere nemmeno a repentaglio la vita di altra gente che deve proteggerti
2. l'Afghanistan oltre la guerra è fatto di gente, ed i soldati sono in netta minoranza.

In proposito ho scritto molto, ad esempio sulla presenza dei civili italiani, tra i quali un'associazione di produttori caseari abbruzzese che ha insegnato ai nomadi Kuci a fare il formaggio conservabile. Una missione, la loro, che si chiamava in modo emblematico e sbeffaggiante: "Enduring Cheese" ( per chi non lo sapesse, la missione USA si chiama Enduring Peace, pace durevole).

Con tutto ciò voglio dire che, se escludiamo qualche personaggio che vuole farsi bello davanti agli amici, al ritorno (se torna), gli altri fotografi vanno perché sentono di dover andare, di imparare, vedere, fotografare e riportare.

Riflessione della sera: cosa sappiamo dell'Iraq, di quello vero, non quello venduto dall'ufficio pubbliche relazioni delle forze armate USA, da quando non ci va più nessun giornalista, con la paura di fare la fine della politkovskaja?

P.S. Jose' Cendon è stato liberato all'inizio dell'anno.